A proposito del (auspicato e necessario) cambio di mentalità con riferimento al tema del work-life balance.
Allavelli Legal
Non rinnovare un contratto a termine ad una lavoratrice in gravidanza ben può integrare una discriminazione di genere.
La Corte di Cassazione (Sentenza n. 5476 del 26 febbraio 2021) ribadisce questo principio, forse noto maggiormente a livello sovrannazionale, troppo spesso dimenticato.
Nel caso oggetto della decisione, il datore di lavoro aveva rinnovato i contratti a tutti i colleghi nelle medesime condizioni contrattuali e non, invece, alla lavoratrice in gravidanza.
Dirimente quindi la circostanza che, a parità di condizioni, venga posto in essere un atto o un comportamento pregiudizievole e comunque sia attribuito un trattamento meno favorevole ad una lavoratrice in ragione dello stato di gravidanza.
La discriminazione collegata alla gravidanza e alla maternità costituisce una forma particolare di discriminazione di genere.
Proprio per proteggere la gravidanza, la maternità e la genitorialità, l’Unione europea ha gradualmente sviluppato un complesso quadro normativo (art. 157 TFUE; art. 33, paragrafo 2, Carta dell’UE; direttive europee contro la discriminazione di genere) recepito anche nel nostro ordinamento interno (D.Lgs. 198/2006 – Codice delle pari opportunità tra uomo e donna; D.Lgs. 5/2010 – pari opportunità e parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego; D.Lgs. 150/2011 che ha ricondotto il procedimento contro le discriminazioni al modello del rito sommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c. e ss.), e così anche le Corti sovranazionali e nazionali.